I Velvet Underground sono più famosi di Andy Warhol

 Noi tutti eravamo sicuri del fatto che Andy Warhol fosse l’unica icona capace di ispirare le nuove generazioni artistiche della sottocultura di New York. Pensavamo che la rivoluzione pop del buon vecchio Drella (come erano soliti chiamarlo gli amici unendo Dracula con Cinderella) fosse il motore centrale di ogni manifestazione creativa giovanile. Ed invece ci sbagliavamo perché stando a quanto dichiarato da Bloomberg la band dei Velvet Underground, che fu creata a tavolino proprio da Andy Warhol, ha scavalcato il maestro guadagnandosi una fama ed un’ammirazione ancor più grande dei tempi in cui Lou Reed, Nico e soci imperversavano sui palchi della grande mela con il loro sound grezzo ma innovativo.

In questi giorni Lou Reed assieme alla batterista Maureen ‘Moe’ Tucker ed al bassista Doug Yule saranno protagonisti di una piccola reunion alla New York Public Library esattamente a quarant’anni di distanza dall’uscita del loro Lp di debutto, quello con la banana creata da Andy Warhol in copertina, per intenderci. La stretta connessione tra New York ed i Velvet Underground sarà la tematica principale di questa riunione moderata dal giornalista del Rolling Stone, David Fricke.

Parliamoci chiaro: il 2013 non è creativo quanto il 1913

Incredibili rivoluzioni artistiche e nuove forme di architettura… il problema è che stiamo parlando del secolo scorso. Ciò che è stato creato nella prima decade di questo secolo non può essere nemmeno lontanamente paragonata agli stessi anni del secolo scorso.

Gaudì crea edifici che rassomigliano a sculture sognate da un profeta allucinato. A Vienna un giovane Egon Schiele aggiunge nuovo genio all’arte di Gustav Klimt. In Italia nasce il Futurismo, una delle più grandi avanguardie artistiche mai pensate.  Ed a Parigi Picasso e Matisse impazzano come non mai.  Con questi incredibili cambiamenti e tumulti chissà cosa succederà tra cento anni, il 21 secolo sarà incredibilmente ricco di invenzioni artistiche? Ecco, un critico che nel 1913 si fosse posto questa domanda e avesse poi viaggiato nella macchina del tempo di H.G. Wells fino ai nostri giorni sarebbe certo molto sorpreso e scontento.

Quando il museo si trasforma in galleria privata

 Nel 2008  tutte le opere della mostra di Richard Prince alla Serpentine Gallery di Londra provenivano dallo studio dell’artista ed erano disponibili sul mercato. Tutti i costi della mostra, ossia cataloghi, trasporti ed installazioni sono stati coperti dai dealers di Prince e cioè Larry Gagosian e Ronald Coles. Un’opera dell’artista venduta dopo la mostra ha raggiunto una cifra a sei zeri. Anche la mostra di Karen Kilimnik alla Serpentine è stata realizzata grazie agli aiuti della sua galleria la 303 Gallery di New York.

La mostra @Murakami tenutasi sempre nel 2008 al Los Angeles Museum of Contemporary Art è stata sponsorizzata dalle gallerie di Takashi Murakami e cioè Blum&Poe, Gagosian, Perrotin e supportata persino da Louis Vuitton il quale ha installato un mini shop nel museo e si è messo a vendere oggetti disegnati dall’artista per il celebre marchio. La rovinosa Mostra di Damien Hirst alla Wallace Collection di Londra è stata realizzata grazie ad un’ingente somma messa a disposizione dall’artista stesso. Hirst ha infatti contribuito con 417.000 dollari ed ha coperto tutti i costi della mostra. Intanto in Francia la mostra di Jeff Koons a Versailles agli inizi del 2009 è stata realizzata grazie a Francois Pinault che oltre ad essere collezionista di Koons è detentore della casa d’aste Christie’s, della galleria Haunch of Venison e di due musei a Venezia.

In Inghilterra tutti possono essere collezionisti d’arte

 Una mini rivoluzione è in atto in Inghilterra riguardo al collezionismo d’arte contemporanea. Molti di voi vorrebbero iniziare a collezionare arte ma non possono permettersi cifre da capogiro, magari moltissimi giovani vorrebbero aggiudicarsi una piccola opera del loro artista preferito sia per diletto che per investimento. Ecco che in Inghilterra la cosa diviene realtà. Dal 2004 l’Arts Council britannico ha varato un’importante manovra denominata Own Art che permette alla gente comune di acquistare un’opera d’arte contemporanea e pagarla in 10 rate mensili senza interessi.

Il prestito va dalle 2.000 sterline in su ed ha permesso ad artisti, galleristi e collezionisti di trarre enormi benefici. Inoltre il Regno Unito sta vivendo una nuova ondata di collezionismo formata da semplici studenti, pensionati, poliziotti ed agricoltori, persone interessate al piccolo collezionismo che fino ad ora non potevano avvicinarsi alle opere che avevano intenzione di acquistare. Il quotidiano inglese Telegraph ha recentemente intervistato alcuni dei nuovi collezionisti mettendo in luce una bizzarra quanto meravigliosa realtà che sembra impossibile nella nostra Italia.

Cover Art, ovvero come ti copio un capolavoro con la Playstation

Alcune opere d’arte degli anni ’70 create da maestri come Vito Acconci e Chris Burden sono divenute oggi dei fari in grado di ispirare ed influenzare anche le nuove generazioni artistiche. D’altro canto questo nuovo millennio si è trovato un poco a corto di idee rispetto al passato e non è mistero che i giovani attingano a piene mani da ciò che si è gia fatto. L’opera d’arte di respiro internazionale creata in un recente passato rappresenta sempre un comodo appiglio sia intellettuale che formale ed inoltre discostandosi leggermente da un capolavoro si rischia molto meno che buttarsi in una nuova e rivoluzionaria ricerca che potrebbe essere poco compresa da pubblico e critica.

Il fenomeno di riprodurre opere famose si chiama (come in musica) Cover ed ha dato luogo ad una crescente pratica denominata Cover Art.  Non è mistero che l’ausilio del computer e delle nuove tecnologie sia una delle cause di questo fenomeno che rischià però di sfociare in un appiattimento generale su di un unico livello. Poco tempo fa è balzato agli onori delle cronache un giovanotto chiamato Ramsay Stirling che ha basato il suo portfolio sulla riproduzione di famosi capolavori d’arte concettuale ricreati appositamente per la rete. L’artista ha riprodotto opere di Jasper Johns e Ad Reinhardt oltre che una copia di Television Delivers People (1973) di Richard Serra, trasformandola in Internet Delivers People.

Bas Jan Ader, una caduta infinita


“La terra ferma tutto”, in questa semplice affermazione oltre ad una riflessione sull’interazione gravitazionale, Bas Jan Ader focalizza l’attenzione sull’aspetto drammatico e perfetto dell’esperienza umana.  Nato il 19 aprile del 1942 a Winschoten, in Olanda, questo grande artista concettuale ha riempito le sue performance ed i relativi video con un estrema fisicità, rendendo tangibili alcuni concetti astratti come la disperazione e la tristezza della perdita, la capitolazione ed il conseguente ritorno alla madre terra.

Difficile restare impassibili di fronte a I’m too sad to tell you (1971), video in cui l’artista, in primissimo piano, piange di fronte alla telecamera, come è impossibile non meravigliarsi di fronte alla lucida capitolazione di Fall I, Los Angeles e Fall II, Amsterdam (entrambe 1970) dove il performer si getta rispettivamente da un tetto di una casa e dentro un canale di Amsterdam con una bicicletta. Non si tratta solamente di immagini di una fine ma anche dell’ostinazione di un voler raccontare un qualsiasi accadimento improvviso all’interno della vita di tutti i giorni, di una ferma decisione di lasciarsi andare alle leggi della fisica.

Il MoMa rifiutò un’opera regalata da Andy Warhol

La notizia è a dir poco incredibile ed è un vero e proprio schiaffo alla tanto decantata lungimiranza delle grandi istituzioni museali internazionali.  Aggiungiamo che solitamente i musei non hanno molto sense of humor ma questo particolare non sembra interessare al MoMa, Museum Of Modern Art di New York che di ironia sembra averne parecchia, persino l’autocritica sembra sia una dote del celebre museo. In un recente post sull’account ufficiale del MoMa su Twitter si apprende infatti l’esistenza di una lettera di rifiuto che il museo avrebbe mandato nientemeno che ad Andy Warhol nel 1956.

Per essere bella l’arte non deve avere un messaggio

 Voi da che parte state, siete amanti del figurativo o del concettuale? siete convinti che l’opera d’arte deve sempre nascondere un significato o per voi l’arte deve essere libera da ogni senso logico e filosofico? Insomma esistono diversi modi di avvicinarsi all’arte contemporanea ed interpretarla. Secondo il grande video artista americano Stan Brakhage un’opera d’arte deve essere creata secondo una personale mitopoiesi, ancorarsi cioè ad una forma di mitologia e filosia estetica e formale tratta dal proprio immaginario e non da  testi, films, musica e spunti creativi di sorta partoriti dalla mente di qualcun’altro.

Leggendo il blog del critico inglese Jonathan Jones possiamo invece apprendere alcune divertenti ed intelligenti disquisizioni sull’esegesi e sulla genesi di un’opera d’arte. Secondo Jones l’arte per essere interessante non deve parlare di nulla. In effetti il critico asserisce che più si spiega di cosa parla un’opera e più la si rende meno interessante. C’è da dire che girando abitualmente per mostre e fiere è possibile assistere alla spiegazione di una data opera da parte del gallerista o del suo creatore e tale pratica si trasforma solitamente in un’improbabile arrampicata sugli specchi infarcita di collegamenti a questa o quella ricerca stilistica ed estetica del tutto raffazzonati alla meno peggio.

Il futuro dell’arte è il concettuale? vedremo

Nel 1965 Joseph Kosuth realizzò l’opera Una e tre sedie che comprendeva una vera sedia, una sua riproduzione fotografica ed un pannello su cui era stampata la definizione della parola sedia. Con tale azione l’artista voleva far riflettere lo spettatore  sulla relazione tra immagine e parola, in termini logici e semiotici. Prima di Kosuth, Marcel Duchamp con la sua celebre opera Fontana del 1917 aveva già gettato le basi per il futuro sviluppo dell’arte concettuale.

Chissà però se Duchamp prima e Kosuth poi si saranno mai fermati a pensare all’enorme influenza della loro creatività nel mondo dell’arte strettamente contemporanea. L’escalation dell’arte concettuale infatti sembra divenuta inarrestabile, è oramai cosa consona recarsi ad una mostra in galleria, ad una fiera o ad una biennale d’arte e trovarci dentro un enorme quantitativo di opere costituite da oggetti assemblati a caso e installazioni ermetiche ed alquanto pretestuose. L’escalation del concettuale ha però perso per strada la spinta provocatoria e rivoluzionaria degli inizi oltre che una certa dose di filosofia dettata da una ricchezza culturale ed in certi casi spirituale.

La pittura ha ancora un senso

Le possibilità espressive e creative delle arti visive hanno subito una rapida espansione durante il corso del ventesimo secolo, Marcel Duchamp ha inventato il ready made e successivamente nel corso degli anni sessanta e settanta il proliferare di nuove tecniche come l’installazione, la performance, la land art, la body art, la video arte e la fotografia (non ultima quella digitale) sembravano aver dichiarato a morte la pittura.

Eppure negli scorsi anni la pittura ha incominciato un lento ma inesorabile cammino di ritorno riguadagnando prestigio tra collezionisti ed istituzioni e riconfermandosi regina di aste e compravendite di mercato. Ne aveva avuto il sentore il Centre Pompidou di Parigi nel 2002, presentando la mostra Cher Peintre, Lieber Maler, Dear Painter e profetizzando il ritorno ad una certa forma di pittura figurativa. Successivamente tra il 2004 ed il 2005 Charles Saatchi presentò a Londra una serie di tre mostre intitolate The Triumph of Painting.

Che fine ha fatto il design italiano?

La Brionvega ha rilanciato sul mercato due storici prodotti degli anni ’60, si tratta del televisore Algol e della radio Cubo, due capolavori di design creati dal nostro Marco Zanuso in tandem con Richard Sapper. Dal canto suo anche la Fiat ha rilanciato la gloriosa 500 rielaborando le linee create nel 1957 da Dante Giacosa. Che dire poi delle meraviglie di design create negli anni ’60 da Cesare “Joe” Colombo, inventore di meravigliosi complementi d’arredo le cui linee effervescenti riecheggiano ancora dalle odierne produzioni industriali fin dentro le nostre case.

Ed ancora chi non ricorda la storica macchina per scrivere Olivetti Lettera 22, capolavoro di tecnica e stile creato nel 1950 da Marcello Nizzoli e strumento inseparabile di scrittori e giornalisti come Cesare Marchi, Enzo Biagi e Indro Montanelli. Infine come dimenticare maestri del calibro di Bruno Munari, Gae Aulenti, Achille Castiglioni, Enzo Mari e Gio Ponti, veri e propri pionieri che hanno rivoluzionato il modo di pensare e vivere gli oggetti che circondano la nostra vita.

Libri fotografici, la nuova frontiera dell’investimento?


Anche in tempi di recessione economica il mercato dell’arte sembra tenere seppur con una leggera flessione dei prezzi. C’è però una categoria di oggetti artistici che sembra aver guadagnato molto terreno raddoppiando le proprie quotazioni. Si tratta dei Libri fotografici ad edizione limitata, la nuova moda del mercato dell’arte assieme alle onnipresenti stampe artistiche.

Prendiamo ad esempio Benedikt Taschen dell’omonima e celebre casa editrice. Nel 1999 Taschen pubblicò Sumo, una retrospettiva del famoso fotografo Helmut Netwon, la monografia comprendeva inoltre un espositore disegnato da Philippe Starck il libro fu inoltre il più grande del 20 secolo, le sue dimensioni erano infatti 50 cm per 70 cm e l’editore tedesco si fece aiutare dal rilegatore di bibbie del Vaticano.

Vademecum della Video Arte italiana


La video arte è oramai regina di ogni manifestazione artistica, in ogni grande museo ed in ogni prestigiosa galleria nazionale ed internazionale questo media è talmente presente da divenir quasi inflazionato e vagamente compiaciuto di se stesso. La causa di questa popolarità oltre alla meraviglia che da sempre producono le immagini in movimento nel pensiero collettivo è da attribuirsi all’enorme influenza che la nostra società dell’immagine esercita sulla fantasia degli artisti, spingendoli sempre più spesso a creare mediante l’uso del video.

Eppure tutto questo fermento non riesce a trovare nel nostro paese un ricambio generazionale capace di entusiasmare ed imporsi sulla scena internazionale. I nostri video artisti sembrano come inceppati nella loro stessa macchina da presa digitale che li costringe a concentrarsi unicamente sulla forma e non sul concetto. La loro esperienza visiva sembra appiattirsi ed uniformasi su di un ipotetica linea stilistica dominata da una serie di effetti e filtri elettronici mirati unicamente all’estetica fine a se stessa e non alla poetica dell’immagine.

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