Cover Art, ovvero come ti copio un capolavoro con la Playstation

Alcune opere d’arte degli anni ’70 create da maestri come Vito Acconci e Chris Burden sono divenute oggi dei fari in grado di ispirare ed influenzare anche le nuove generazioni artistiche. D’altro canto questo nuovo millennio si è trovato un poco a corto di idee rispetto al passato e non è mistero che i giovani attingano a piene mani da ciò che si è gia fatto. L’opera d’arte di respiro internazionale creata in un recente passato rappresenta sempre un comodo appiglio sia intellettuale che formale ed inoltre discostandosi leggermente da un capolavoro si rischia molto meno che buttarsi in una nuova e rivoluzionaria ricerca che potrebbe essere poco compresa da pubblico e critica.

Il fenomeno di riprodurre opere famose si chiama (come in musica) Cover ed ha dato luogo ad una crescente pratica denominata Cover Art.  Non è mistero che l’ausilio del computer e delle nuove tecnologie sia una delle cause di questo fenomeno che rischià però di sfociare in un appiattimento generale su di un unico livello. Poco tempo fa è balzato agli onori delle cronache un giovanotto chiamato Ramsay Stirling che ha basato il suo portfolio sulla riproduzione di famosi capolavori d’arte concettuale ricreati appositamente per la rete. L’artista ha riprodotto opere di Jasper Johns e Ad Reinhardt oltre che una copia di Television Delivers People (1973) di Richard Serra, trasformandola in Internet Delivers People.

Lo strano caso del New Museum di New York

Nel 2009 il New Museum di New York ha annunciato una serie di mostre intitolata The Imaginary Museum. Come molti di voli ben sapranno il primo evento espositivo è stato curato da Jeff Koons che ha portato nel museo la collezione del grande collezionista Dakis Joannou. Il greco oltre ad essere uno dei più celebri collezionisti di opere di Jeff Koons è anche il fondatore della Deste Foundation, un centro per le arti contemporanee in Grecia è anche un sostenitore del New Museum.

La mostra curata da Koons ha quindi sollevato un polverone di polemiche per questa sorta di conflitto di interessi fino a che la scorsa settimana la questione etica del New Museum è stata affrontata dal New York Times, da The Art Newspaper e del famoso disegnatore William Powhida che per la copertina del Brooklyn Rail ha creato una mega vignetta intitolata Come il New Museum ha commesso il suicidio mediante la banalità.

Artisti cinesi addio? anche la Cina non crede nei suoi “fenomeni”

 Qualche tempo fa la Cina ha letteralmente preso d’assalto la scena dell’arte contemporanea internazionale, scagliando nel mercato decine e decine di artisti non meglio identificati e catalizzando l’attenzione di gallerie e addetti ai lavori. La bolla cinese ha colpito duramente anche l’Italia dove art dealers della zona Cesarini hanno convinto tutti che la Cina sarebbe divenuta the next big thing dell’arte. Molti collezionisti sprovveduti si sono lasciati incantare dalla voce delle sirene ed hanno sborsato fior di quattrini per accaparrarsi un’opera di un artista cinese, magari anche uno qualunque ma cinese.

Purtroppo coloro che hanno creduto al miracolo sono stati duramente riportati alla realtà dal mercato che pur promuovendo quegli artisti asiatici giustamente riconosciuti come grandi attori del contemporaneo, ha severamente bocciato una miriade di altri pseudo-artisti che tanto piacevano al nostro bel paese. Oggi anche la Cina pone un freno a questa bolla speculativa che ha creato più dubbi che investimenti. Non molto tempo fa  si è tenuta una grande asta al Beijing International Hotel, un’asta comprendente numerosi lotti di arte contemporanea cinese.

Il mondo dell’arte contemporanea è a un bivio: restaurare o replicare?

Alcuni anni or sono al dipartimento di conservazione del Whitney Museum di New York era stata assegnata la missione di preparare Ice Bag Scale C di Claes Oldenburg in occasione di una grande retrospettiva dedicata all’artista. L’opera in questione era un enorme macchinario costituito da un ventilatore ed una specie di sacco di 12 piedi di diametro fatto di nylon e resina di poliestere.

L’opera che è stata prodotta nel 1971 e prevedeva lo sgonfiamento e il rigonfiamento del grande sacco evocando il respiro di una creatura addormentata, nel corso degli anni però i motori del ventilatore hanno cominciato a funzionare a singhiozzo ed il sacco si è deteriorato, insomma l’opera andava restaurata prima del grande evento. Carol Mancusi-Ungaro, il direttore del dipartimento di conservazione, cominciò quindi il delicato restauro usando tecniche più o meno tradizionali ma altri dirigenti dell’istituzione non furono d’accordo con tali metodi, dichiarando che l’opera di Oldenburg era stata totalmente ricostruita e che quindi si trattava di una copia e così andava citata anche al momento della mostra.

Siamo solo noi i responsabili…

Ci siamo messi in un bel guaio ma non possiamo darne la colpa a nessuno, siamo noi responsabili di ciò che abbiamo generato negli ultimi tempi all’interno della nostra scena artistica. Problema: il nostro sistema dell’arte ha fagocitato se stesso cannibalizzando centinaia di giovani promesse, mandandole allo sbaraglio come carne da macello e perdendo attendibilità nei confronti dei collezionisti e del pubblico.

La figura dell’artista in Italia è persa in una densa nebbia in cui non si riesce nemmeno ad intuire i contorni ed il senso delle cose, si intravedono sempre più nuovi talenti (dal discutibile valore) sbandierati come maestri indiscussi che scompaiono senza lasciar traccia del loro passaggio. Il fatto ancor più stravagante è che alcuni fra i più promettenti di loro riescono a partecipare a prestigiose manifestazioni nazionali, vincendo ambiti premi per l’arte contemporanea per poi ripiombare in un’oscura girandola di concorsetti provinciali e mostre in gallerie aperte da poco che si lasciano affascinare dal prestigio dei bei tempi che furono. Ed allora viene da chiedersi chi mai comprerebbe le opere di una cometa destinata a bruciare?

L’arte contemporanea sul banco degli imputati

Il mercato dell’arte contemporanea internazionale non è sempre tutto rose e fiori ed oltre alle strette di mano per compravendite riuscite o le gioiose felicitazioni per opere meravigliose e mostre riuscite, ogni tanto qualche litigio con annesso strascico legale salta fuori a movimentare l’intero scenario.

Si parte con la pluriblasonata Gagosian Gallery che ha citato in giudizio la compagnia aerea Lufthansa. La divisione cargo avrebbe infatti danneggiato irreparabilmente durante il trasporto un dipinto dell’artista americano Brice Marden. Il dipinto dal titolo Au Centre (1969), opera in due pannelli, durante il volo si è liberato dalle imbracature che lo assicuravano alle paratie della stiva e successivamente è stato sballottato con conseguente distacco di alcune grandi parti dipinte. Secondo Gagosian il danno ammonterebbe a 3 milioni di dollari.

Libri fotografici, la nuova frontiera dell’investimento?


Anche in tempi di recessione economica il mercato dell’arte sembra tenere seppur con una leggera flessione dei prezzi. C’è però una categoria di oggetti artistici che sembra aver guadagnato molto terreno raddoppiando le proprie quotazioni. Si tratta dei Libri fotografici ad edizione limitata, la nuova moda del mercato dell’arte assieme alle onnipresenti stampe artistiche.

Prendiamo ad esempio Benedikt Taschen dell’omonima e celebre casa editrice. Nel 1999 Taschen pubblicò Sumo, una retrospettiva del famoso fotografo Helmut Netwon, la monografia comprendeva inoltre un espositore disegnato da Philippe Starck il libro fu inoltre il più grande del 20 secolo, le sue dimensioni erano infatti 50 cm per 70 cm e l’editore tedesco si fece aiutare dal rilegatore di bibbie del Vaticano.

Biennali, c’è anche quella di Lione

 Il 12 settembre 2013 si apriranno le danze per la 10 edizione della Lyon Biennale a Lione, manifestazione internazionale che rimarrà aperta sino al 29 dicembre 2013.  L’evento che ha visto i suoi natali nel 1984 grazie ad un progetto del  Lyon’s Museum of Contemporary Art diretto da Thierry Raspail è stato concepito agli inizi (dal 1984 al 1988) come evento annuale chiamato October of the Arts, manifestazione che terminava con una mostra chiamata Colour Alone: The Experience of Monocrome.

Jonathan Jones e l’importanza della critica

Girovagando per la rete abbiamo trovato un’altra piccola perla del nostro critico preferito, Jonathan Jones che come abbiamo più volte detto cura un interessante blog sul The Guardian. Parlando del sistema dell’arte odierno, Jones si interroga sul contributo della critica come sviluppo della cultura stessa. Le sue parole si riallacciano alla nostra già nota crociata contro “il tutto è bello tutto ci piace” della non critica contemporanea che sta letteralmente creando un livellamento culturale ed estetico che rischia di minare l’essenza dello sviluppo artistico. Citiamo letteralmente le parole di Jonathan Jones:

“Penso che questo sia il momento giusto per tornare a parlare di critica, perché se ne sente il bisogno effettivo. Lo sfrenato volume di arte in una cultura ossessionata dalle gallerie è un mare talmente vasto e confuso che solamente una giusta critica può fare la differenza. Non possiamo continuare ad affermare che tutto ha lo stesso valore, è il momento di rialzarsi e scindere ciò che è buono da ciò che non lo è.

La Crisi e le bufale dell’arte made in Cina

 

La crisi economica è una questione talmente popolare che ormai ha quasi sostituito le disquisizioni meteorologiche.  Ogni testata d’arte o blog che si rispetti possiede un approfondimento sulle relazioni tra crisi economica e mercato dell’arte e ovviamente c’è chi dice che quest’ultimo stia tenendo alla grande e c’è chi dice che si stanno registrando notevoli flessioni nelle aste, nelle fiere e persino nelle vendite delle gallerie. Certo è che il mercato dell’arte è un sistema sostenuto da persone più che benestanti e può essere quindi toccato in maniera del tutto relativa dalla crisi.  Tra le ultime notizie c’è comunque l’importante ridimensionamento del mercato dell’arte cinese, come si evince dalle statistiche di Artprice, un sito che si occupa di raccogliere tutti i risultati delle aste internazionali.

L’arte del ripetersi

Da tempo Globartmag riflette su ciò che avviene all’interno della scena del contemporaneo del Belpaese. Al di là di inutili polemiche ciò che salta miseramente all’occhio è che l’arte italiana non ha più la forza e la voglia di rischiare, di forzare le barricate tentando una disperata ma in certi casi salvifica corsa fuori dalla trincea .

Da tempo immemore oramai le nuove generazioni di artisti prediligono il concetto di riconoscibilità estetica dell’opera in funzione di un sistema dell’arte nostrano che diviene così pericolosamente simile a qualsiasi altra manifestazione commerciale industriale.  Il prodotto artistico deve essere rigorosamente associato al nome dell’artista e questi deve per forza di cose apparire in prima persona su riviste di settore e quanto altro rivendicando la paternità della propria opera. In virtù di ciò l’appassionato, il collezionista ed il curatore saranno ben consci sul chi ha fatto cosa e sapranno ben riconoscere l’arte di un determinato artista anche al primo fuggevole sguardo.

In sostanza l’artista soccorre il fruitore d’arte contemporanea tranquillizzandolo con opere racchiuse in un unico e grande brand alla stregua di qualsiasi altro prodotto impilato sugli scaffali del supermercato. Il vero problema è che tutto questo ripetersi di soggetti e di concetti in salse e colori diversi all’insegna dello slogan “squadra che vince non si cambia” qiu tradotto in “opera che vende non si cambia” rischia di creare un controsenso ideologico e temporale in cui il lavoro di un determinato artista perde totalmente il proprio significato iniziale, se ne aveva uno.

Senza critica la situazione è critica

Benvenuti nell’universo uniformato dell’arte contemporanea, già perché da quanto si evince dalle notizie presenti sui maggiori magazines d’arte italiani, in questi ultimi anni stiamo assistendo al trionfo del bello e della creatività nazionale. Ed allora perché l’arte contemporanea del nostro paese stenta ad imporsi sulla scena internazionale? Dove mai saranno finiti gli eventi male organizzati e gli artisti della domenica?

La quasi totale mancanza di una piattaforma critica coerente è un male diffuso in Italia, un problema annoso che rischia di appiattire l’arte contemporanea su di un unico livello estetico dove tutto è considerato di buona qualità ed ogni artista compie una sua personale ricerca su qualcosa di interessante e sperimentale. Il risultato di questa inutile piaggeria e che gli artisti realmente meritevoli di attenzione così come gli eventi ben riusciti non riescono ad emergere, uniformandosi al resto e pregiudicando un futuro sviluppo sia creativo che tecnico di coloro che potrebbero rappresentare un cambiamento nel vasto mare dell’arte contemporanea nostrana.

Dopo Steve McQueen e Sam Taylor-Wood anche Rirkrit Tiravanija ha deciso di darsi al cinema

Gira che ti rigira anche Rirkrit Tiravanija ha girato un film. Dopo le incursioni Hollywoodiane di Julian Schnabel, autore di pellicole come Basquiat (1996), Lo Scafandro e la farfalla (2007) e Miral (2010) e dopo Nowhere Boy (2009), ultma fatica di Sam Taylor-Wood incentrata sui primi anni della vita di John Lennon, e ancora, dopo i successi di Steve McQueen che ha incantato le platee con Hunger (2008) e Shame (2011), ecco che persino il nostro artista tailandese ha deciso di darsi al cinema.

Il film di Rirkrit Tiravanija si intitola Lung Neaw Visits His Neighbors ed il protagonista è un ex contadino di 60 anni che vive nel villaggio rurale di Chiang Mai, una provincia del nord della Tailandia. La pellicola ha la durata di un vero e proprio kolossal, circa due ore e mezzo di girato ed il nostro caleidoscopico artista ci tiene a precisare che non si tratta di un film documentario né di un’opera strettamente narrativa: “Definirei il mio film come un ritratto del protagonista, ecco questa mi sembra la definizione corretta” ha dichiarato Tiravanija ai microfoni del New York Times.

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