Troppe spiegazioni rendono noiosa l’arte

Una nuova scoperta nel campo della psicologia potrebbe sicuramente attirare l’attenzione di critici e curatori d’arte contemporanea generando anche molte polemiche. Secondo una ricerca apparsa sulla pubblicazione dal titolo Empirical Studies of the Arts spiegare un’opera mediante un testo critico o comunque illustrare dettagliatamente i segreti nascosti all’interno della stessa potrebbe produrre nel pubblico un calo di apprezzamento dell’opera.

Insomma con l’intento di svelare i misteri dell’arte si potrebbe finire per annoiare chi ci ascolta. La ricerca è stata condotta da Kenneth Bordens docente all’Indiana University di Fort Wayne. Bordens ha condotto uno studio su 172 studenti con poca o nulla conoscenza dell’arte.

Per essere bella l’arte non deve avere un messaggio

 Voi da che parte state, siete amanti del figurativo o del concettuale? siete convinti che l’opera d’arte deve sempre nascondere un significato o per voi l’arte deve essere libera da ogni senso logico e filosofico? Insomma esistono diversi modi di avvicinarsi all’arte contemporanea ed interpretarla. Secondo il grande video artista americano Stan Brakhage un’opera d’arte deve essere creata secondo una personale mitopoiesi, ancorarsi cioè ad una forma di mitologia e filosia estetica e formale tratta dal proprio immaginario e non da  testi, films, musica e spunti creativi di sorta partoriti dalla mente di qualcun’altro.

Leggendo il blog del critico inglese Jonathan Jones possiamo invece apprendere alcune divertenti ed intelligenti disquisizioni sull’esegesi e sulla genesi di un’opera d’arte. Secondo Jones l’arte per essere interessante non deve parlare di nulla. In effetti il critico asserisce che più si spiega di cosa parla un’opera e più la si rende meno interessante. C’è da dire che girando abitualmente per mostre e fiere è possibile assistere alla spiegazione di una data opera da parte del gallerista o del suo creatore e tale pratica si trasforma solitamente in un’improbabile arrampicata sugli specchi infarcita di collegamenti a questa o quella ricerca stilistica ed estetica del tutto raffazzonati alla meno peggio.

Lo spettacolo dell’arte e l’arte dello spettacolo

 Le poco confortanti notizie circa i reality show dell’arte contemporanea ci avevano già messo in guardia sulla preoccupante atrofia del sistema dell’arte contemporanea internazionale. Per muovere le acque ed aggiungere un poco di energia galleristi ed istituzioni stanno vagliando ogni possibile ipotesi, sconfinando paurosamente verso le brulle e sconnesse terre dello spettacolo.

D’altronde il caro vecchio Guy Debord ci aveva già messo in guardia sulla deriva della società e dell’arte verso i lidi della mercificazione. Oggi volenti o nolenti ci troviamo di fronte ad un’arte contemporanea tesa al bisogno del cambiamento e della novità che realizza in termini l’espressione pura del cambiamento impossibile, un’arte che pur non riuscendoci deve essere necessariamente d’avanguardia mentre la sua vera avanguardia è la sua scomparsa. Così in Italia si tramutano i musei in cocktail bar ed in discoteche dove le opere svolgono il loro rassicurante ruolo d’arredo a corollario di una massa di parvenu danzerecci amanti del radical chic pensiero. Ed ancora si organizzano e si chiedono vernissage collettivi in modo da fare quadrato attorno ad un evento, come se l’evento stesso sia il fulcro della creatività artistica.

Senza critica la situazione è critica

Benvenuti nell’universo uniformato dell’arte contemporanea, già perché da quanto si evince dalle notizie presenti sui maggiori magazines d’arte italiani, in questi ultimi anni stiamo assistendo al trionfo del bello e della creatività nazionale. Ed allora perché l’arte contemporanea del nostro paese stenta ad imporsi sulla scena internazionale? Dove mai saranno finiti gli eventi male organizzati e gli artisti della domenica?

La quasi totale mancanza di una piattaforma critica coerente è un male diffuso in Italia, un problema annoso che rischia di appiattire l’arte contemporanea su di un unico livello estetico dove tutto è considerato di buona qualità ed ogni artista compie una sua personale ricerca su qualcosa di interessante e sperimentale. Il risultato di questa inutile piaggeria e che gli artisti realmente meritevoli di attenzione così come gli eventi ben riusciti non riescono ad emergere, uniformandosi al resto e pregiudicando un futuro sviluppo sia creativo che tecnico di coloro che potrebbero rappresentare un cambiamento nel vasto mare dell’arte contemporanea nostrana.

A chi interessa la critica italiana?

Riusciremo mai a comprendere gli Stati Uniti? Voglio dire che le meccaniche comportamentali del sistema dell’arte contemporanea a stelle e strisce sono totalmente diverse dalle nostre e tentare di confrontarle è un’impressa assai ardua. Questo non significa certo che gli U.S.A. fanno tutto meglio, anzi di castronerie i nostri ne combinano parecchie ma è evidente che uno sguardo più attento all’american way of life non potrebbe far altro che giovarci, ma andiamo nello specifico.

Prendiamo ad esempio la critica d’arte americana, parliamo di figure come Jerry Saltz o piattaforme come Hyperallergic o The Brooklyn Rail. La prassi è quella di recensire le mostre cercando di giudicare ciò che si è visto in maniera schietta e sincera. Le stroncature quindi sono all’ordine del giorno ma si tratta di giudizi che aiutano a crescere, a non ripetere i propri errori. Le gallerie, i musei o gli artisti che subiscono tali critiche non si scompongono più di tanto ed il prestigio della critica è dato soprattutto dalla sua veracità e sincerità.

Parliamo di opere, non di nomi

Quando guardate una mostra, ammirate la valenza delle opere o preferite semplicemente ammirare i nomi degli artisti o peggio ancora i loro curriculum? La risposta a questa domanda dovrebbe essere assai semplice, eppure sembra che non tutti siano in linea con l’affermazione: “l’opera prima di tutto”. Negli ultimi tempi infatti, molti attori dell nostro sistemone artistico nazionalpopolare hanno dimostrato di pensare solo al loro progetto curatoriale, sparando nomi blasonati, piuttosto che osservare da vicino la produzione degli artisti.

Esempio lampante di questa pratica assai deprecabile è l’attuale Padiglione Italia (con relative Biennali diffuse in ogni regione) di Vittorio Sgarbi. Per tener fede al suo progetto, il celebre storico ha di fatto affastellato decine e decine di nomi, creando una sorta di fai da te dell’arte, con artisti lasciati alla loro mercé che hanno trasportato le opere a proprie spese e non hanno avuto nemmeno voce in capitolo per quanto riguarda l’allestimento.

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