Febbraio e le mostre in giro per il mondo

Yayoi Kusama

Visto che l’avete richiesta a suon di email eccoci alla nostra consueta panoramica sulle mostre in giro per il mondo. Eventi da non perdere che vi terranno connessi all’arte contemporanea anche durante le vostre vacanze invernali. Partiamo da Los Angeles e del LACMA che fino al prossimo 6 maggio presenta al pubblico In Wonderland: The Surrealist Adventures of Women Artists in Mexico and the United States, vale a dire una delle più grandi (e complete) retrospettive sul surrealismo visto dalle donne. Opere di Frida Kahlo, Louise Bourgeois, Dorthea Tanning e tante altre che sapranno certamente stupirvi.

Alla Tate Modern Di Londra, fino al 5 giugno, c’è  la grande mostra dedicata all’artista giapponese Yayoi Kusama. Occasione imprendibile per ammirare i celebri dots colorati e le divertentissime installazioni della principessa dei polka dots. Sempre a Londra, Alla National Portrait Gallery (dal 9 febbraio al 27 maggio 2012) potrete ammirare la grande retrospettiva dedicata a Lucian Freud.

Il Guggenheim. L’avanguardia americana 1945–1980

Il Guggenheim. L’avanguardia americana 1945–1980 illustra gli snodi principali dello sviluppo dell’arte americana in un periodo di grandi trasformazioni nella storia degli Stati Uniti: un’epoca segnata da prosperità economica, rivolgimenti politici e conflitti internazionali, oltre che da progressi sostanziali in ambito culturale.

La mostra che inaugura il 7 febbraio a Palazzo delle Esposizioni di Roma prende le mosse dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti si affermarono come centro globale dell’arte moderna e l’ascesa dell’Espressionismo astratto iniziò ad attrarre l’attenzione internazionale su una cerchia di artisti attivi a New York. A partire da quel momento, nell’arte americana si assiste a una straordinaria proliferazione delle pratiche estetiche più diverse: dall’irriverente entusiasmo della Pop art per l’immaginario popolare fino alle meditazioni intellettualistiche sul significato dell’immagine che caratterizzano l’Arte concettuale negli anni sessanta; dall’estetica scarnificata del Minimalismo alle sgargianti iconografie del Fotorealismo negli anni settanta. Pur producendo opere profondamente diverse tra loro, tali movimenti furono accomunati da un impegno sostanziale ad indagare la natura intrinseca, il senso e le finalità dell’arte.

Da Hopper a Warhol. Pittura americana del XX secolo a San Marino

Da Hopper a Warhol. Pittura americana del XX secolo a San Marino, curata da Marco Goldin, è proposta a Palazzo SUMS dal 21 gennaio al 3 giugno (in parallelo alla grande mostra riminese “Da Vermeer a Kandinsky. Capolavori dai musei del mondo a Rimini”). L’esposizione prende in considerazione tutti i momenti fondamentali, a partire dal realismo di Edward Hopper da un lato e di Thomas Hart Benton dall’altro, fino all’esperienza così particolare di Giorgia O’Keeffe. Già da questi primi nomi si comprende come la partenza della rassegna sammarinese sia straordinaria, con il realismo adamantino e stordente di Hopper, la cosiddetta visione regionale di Benton e la secchezza in cui si mescolano descrizione e metafisica della O’Keeffe.

A questa prima fase succede quella, indimenticabile, della grande astrazione americana. Divisa in mostra tra una parte più gestuale e una in cui il colore pare distendersi libero e indicare anche il senso della costruzione e della forma. Tutti i nomi più celebri vi sono compresi, a cominciare ovviamente da quello di Jackson Pollock, presente con due grandi tele, la prima del 1949 e la seconda del 1952. Poi ancora Franz Kline, con un grandi dipinto del 1960, dunque il momento migliore del suo lavoro.  Su un registro intermedio si giocano i quadri inclusi in mostra di un autore straordinario che lavora sul segno declinato nella grande superficie spesso quasi monocroma. E’ dunque il caso di Arshile Gorky che più di altri ha saputo rendere il fascino di una scrittura che si mescola alla materia di un colore rappreso.

Scoperto un giro di opere false a New York

In questi ultimi giorni il patinato mondo dell’arte contemporanea è scosso da una notizia che è rimbalzata su tutte le prime pagine dei quotidiani, primo fra tutti il New York Times. Si tratta di un giro di frodi (se ne contano almento 16) a cui ha partecipato la creme della creme dei dealers della scean. Nello specifico il dealer Glafira Rosales avvrebbe rifornito alcuni suoi colleghi tra cui Ann Freedman presidente della galleria newyorchese Knoedler & Company ed il gallerista newyorchese Julian Weissman con opere di dubbia provenienza.

Le vittime coinvolte nella truffa potrebbero essere molte e sopratutto ignare, visto che persino il New York Times ha azzardato quest’ipotesi: “Chi è coinvolto in questo caso ha dichiarato che i collezionisti ed i dealers che hanno acquistato le opere incriminate potrebbero non avere nessun dubbio sulla chiara autenticità dei loro acquisti”. Nel mentre Knoedler & Company ha già chiuso i battenti, segno evidente che qualcosina di losco nell’aria deve pur esserci.

Se Aelita Andre a 4 anni tenta di raggiungere Jackson Pollock

Molti non-esperti e non-aficionados dell’arte contemporanea stentano a comprendere i meccanismi sia produttivi che commerciali di questo grande circus. La maggior parte del pubblico non avvezzo non riesce a capacitarsi di come possano manifestarsi vendite di opere per cifre sbalorditive, altri invece provano sdegno per opere che “potevano essere fatte anche da un bambino di quattro anni”. Molto spesso questo tipo di apprezzamenti sono rivolti alle opere di Jackson Pollock, all’informale ed all’astratto ed in genere alle manifestazioni creative che forse il pubblico vede a portata di mano rispetto ad altri capolavori di arte moderna.

Ebbene noi tutti sappiamo che ad un più attento studio dell’arte contemporanea si arriva a comprendere i significati altri di quelle estetiche e quei segni apparentemente privi di senso. In questi ultimi giorni però abbiamo avuto modo di assistere ad un fatto assai bizzarro: alcuni dipinti in puro stile Pollock in mostra alla Agora Gallery di Manhattan sono in realtà il prodotto creativo di un bimbo di 4 anni.

L’Università dell’Iowa vuole vendere un Pollock donato da Peggy Guggenheim

Un’opera d’arte, come si sa, rappresenta un patrimonio culturale praticamente inestimabile. Quando poi l’opera in questione è stata prodotta da un vero e proprio maestro, allora essa diviene un vero e proprio bene per l’umanità. Ma possedere un’opera d’arte creata da un famoso artista significa anche essere proprietari di un bene economico in continua rivalutazione. Lo sanno bene i vertici della University of Iowa che dal 1951 beneficiano di una grande opera dal titolo Mural (1943) creato da Jackson Pollock e successivamente donato all’istituzione scolastica da quell’eroina dell’arte contemporanea che risponde al nome di Peggy Guggenheim.

Ora va detto che l’opera, posta all’interno degli spazi scolastici, rappresenta un vero e proprio strumento formativo, ammirato da 100.000 persone l’anno. Studenti e semplici visitatori che trovandosi davanti all’opera di Pollock possono ricevere un primo assaggio dell’arte contemporanea statunitense. Ebbene l’Università dello Iowa ha deciso di mettere in vendita l’opera del grande maestro per supportare al meglio i propri studenti.

Jackson Pollock? un’invenzione della C.I.A.

In questi giorni è apparso su La Repubblica un articolo decisamente affascinante. Donald Jameson, ex funzionario dell’intelligence statunitense avrebbe infatti dichiarato che i maestri dell’espressionismo astratto Jackson Pollock, Robert Motherwell, Willem de Kooning e Mark Rothko, furono finanziati (a loro insaputa) direttamente dalla C.I.A., questo per imporre il new american painting all’attenzione del mondo.

L’espressionismo astratto potrei dire che l’abbiamo inventato proprio noi della Cia dopo aver dato un occhio in giro e colto al volo le novità a New York, a Soho. Scherzi a parte avemmo subito molto chiara la differenza. L’espressionismo astratto era il tipo di arte ideale per mostrare quanto rigido, stilizzato, stereotipato fosse il realismo socialista di rigore in Russia. Così decidemmo di agire in quel senso” ha dichiarato Jameson. A noi queste cose fanno un poco sorridere, specialmente quando si parla di sostegni economici e letterari con ampi articoli su riviste come Encounter, Preuves e Tempo Presente.

Quando il Blockbuster diventa un Flop

In America e nei paesi di lingua anglofona le chiamano Blockbuster Exhibitions termine che da noi si potrebbe tradurre come Mostre da botteghino. In pratica le mostre Blockbuster sono eventi dal successo già annunciato, la regola è sempre la stessa: si sceglie un’importante sede istituzionale e si programma una mostra con uno o più artisti di caratura internazionale o comunque ampiamente storicizzati.

Una campagna promozionale martellante completa il tutto ed al momento dell’apertura dei cancelli vedrete una bella fila di visitatori pronti a sborsare decine di euro per ammirare quattro dipinti risicati degli impressionisti francesi o l’ennesima collezione di schizzi di Degas o magari il meglio della produzione di Jackson Pollock che nella migliore delle ipotesi si risolve in qualche opera minore raffazzonata chissà dove.

L’Iran si apre all’arte contemporanea


Sono passati 32 anni dalla rivoluzione islamica, 32 lunghissimi anni che hanno in qualche modo allontanato l’Iran dalla cultura occidentale. In questi ultimi due o tre anni però il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha raccolto le bramosie di apertura verso il mondo manifestate dal suo popolo ed in qualche modo qualcosa ha cominciato a muoversi sotto la superficie. Gli ayatollah non sono riusciti a fermare il fiume in piena rappresentato da internet e non sono riusciti a contenere la sete di cultura di tutto il popolo iraniano.

Sembra quindi che qualcuno all’interno del regime abbia capito che la pressione debba essere in qualche modo allentata e ciò può avvenire proprio grazie all’arte.Fino ad oggi i musei di tutta la nazione, incluso il Tehran Museum of Contemporary Art, hanno messo in mostra solo arte islamica ma questa settimana, per la prima volta in assoluto dal 1978, Tehran ha organizzato una grande mostra con tutti i più grandi artisti internazionali dello scorso secolo. 

Captain Beefheart, cambiare l’arte con una maschera da trota

Il nome Don Van Vliet vi dice qualcosa? no? allora forse conoscerete meglio l’aka di questo grandissimo artista che da anni si cela dietro lo pseudonimo di Captain Beefheart. Nato il 15 gennaio del 1941 in California, Captain Beefheart è forse uno degli artisti più seminali della scena internazionale. Cantante, musicista,  pittore ma soprattutto grande visionario, l’estroso Vliet è stato in grado di cambiare per sempre la storia della musica contemporanea grazie ad una spontaneità ed una verve senza pari.

Dopo la sua entrata nella Magic Band nel 1965, divenne il leader indiscusso di tale formazione, sino a giungere a veri e propri attacchi di dispotismo creativo. La sua tirannia fu però ben giustificata dall’uscita di una delle pietre miliari del rock, il disco Trout Mask Replica del 1969. L’album rappresentò infatti un punto di rottura definitivo con tutto ciò che era stato prodotto in precedenza.  I 28 brani che lo componevano  erano caratterizzati da un’originale mistura di tempi dispari delle partiture, da testi surreali, sterzate di free jazz ed avanguardia totale, in sostanza una vera e propria anticipazione del punk e della new wave.

Le cose non dette riempiono il vuoto di una forma riflessa.*

Più di 40 schermi di differenti dimensioni, 25 opere video dalla collezione Sandretto Re Rebaudengo, 10 giovani artisti italiani coinvolti in un’opera unica, 2 istituzioni che collaborano, 1 chiesa a quattro braccia con l’ottagono centrale sormontato da una cupola.

Il complesso milanese di S. Michele ai Nuovi Sepolcri è circondato dal ritmo armonioso del porticato a pianta curvilinea, la vegetazione del giardino interno è verde brillante, ci passerei volentieri un pomeriggio d’estate a lasciar passare il tempo, ma oggi lascerò che il tempo non passi dentro quelle mura. In un’epoca in cui guardando una tela di Pollock qualcuno riesce ancora a dire:”Potrei farlo anch’io”, è un atto di coraggio proporre, come amministrazione pubblica, una mostra di soli video. E se non bastasse questo, il colpo di grazia lo da il tema: You-We, cioè noi e voi, l’altro, la multiculturalità, il dialogo con l’oriente. Mi piace quando le iniziative culturali mi sbattono in faccia tutta la mia limitatezza.

Un nuovo libro svela la “vita spericolata” di Leo Castelli

Leo Castelli ha gestito dagli ’50 fino alla fine degli anni ’90 la Leo Castelli Gallery al numero 420 di West Broadway, diventando un vero e proprio mito dell’arte contemoporanea. Dalla sua scuderia sono infatti passati i più grandi artisti del ventesimo secolo come Jackson Pollock, Willem de Kooning, Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Frank Stella, Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Robert Morris, Donald Judd, e Dan Flavin.

La lunga e mitica carriera di Castelli è ora documentata in una nuova biografia di Annie Cohen-Solal dal titolo Leo and His Circle. La pubblicazione offre buoni spunti per saperne di più sulla figura del grande dealer e vorremmo fornirvi qualche stralcio che ci sembra decisamente divertente.

Arriva Jennifer Rubell con la sua prova del cuoco per l’artocrazia internazionale

La scena dell’arte contemporanea statunitense ha lanciato un nuovo protagonista ma questa volta sinceramente non è certo una figura di cui si sentiva il bisogno. Si tratta di Jennifer Rubell, autodefinitasi pioniera della conceptual food art. Va detto che bisognerebbe spiegare alla Rubell che gli interventi artistici che prevedono l’uso di materiali edibili sono stati sperimentati già decine e decine di anni fa, quindi queste ricerche non hanno nulla di pionieristico. Alcuni giorni fa Jennifer Rubell ha portato alcune delle sue stravaganti creazioni al Brooklyn Museum di New York in occasione del Brooklyn Ball 2010.

La stravagante cuoca (ci piace definirla così più che artista) ha presentato alcune installazioni edibili ispirate ad opere di grandi protagonisti del ventesimo secolo. Tra le opere riprodotte dalla Rubell figuravano Seedbed di Vito Acconci (1972), Fountain di Marcel Duchamp (1917), Ten Heads Circle/Up and Down di Bruce Nauman (1990) Painter di Paul McCarthy (1995),  One: Number 31 di Jackson Pollock (1950) e How to Explain Pictures to a Dead Hare di Joseph Beuys (1965). Ovviamente ogni opera per essere mangiata deve essere distrutta e secondo la Rubell questa pratica catartica e partecipativa è il punto forte della sua arte.

Takeshi Kitano stupisce alla Fondation Cartier di Parigi

Molti artisti sono in grado di trasformarsi in registi e girare film interessanti, Sam Taylor Wood e Julian Schnabel sono solo alcuni dei nomi di quelli che sono riusciti in questa ardua impresa. Raramente però registi e attori sono capaci di trasformarsi in artisti visivi. Basti guardare le terribili creazioni astratte di Dennis Hopper o i disgustosti interventi pittorici di Sylvester Stallone che sembra aver fatto a pugni con l’espressionismo astratto.

Lo scorso anno quindi l’annuncio di una prossima mostra alla Fondation Cartier ( in visione dall’ 11 marzo al 12 settembre 2010) di Parigi del grande regista Takeshi Kitano ha fatto suonare il campanello di allarme. Nei film di Kitano la Yakuza (mafia giapponese) è un elemento assolutamente ricorrente così come lo sono il mare, la disgrazia fisica ed il suicidio (a cui molto spesso i suoi protagonisti fanno ricorso). L’eroe di Kitano è molto spesso un invincibile vendicatore la cui giustizia cruda e discutibile è portata avanti in modo inesorabile. Il regista critica da vicino la società giapponese di cui spesso fornisce una parodia. Il 1997 è l’anno della svolta per Kitano, l’anno del successo internazionale, l’anno in cui esce Hana-bi – Fiori di fuoco (Hana-bi).

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