Quando il nudo in arte non è peccato

Quando ammirate un’opera d’arte sicuramente sarete colpiti dalla sua estetica, dai colori, dall’impianto prospettico e perchè no anche da ciò che si cela dietro le forme vale a dire al concetto ed al simbolismo che l’artista ha voluto trasmettere all’opera. Eppure molti di voi, quando si trovano ad ammirare capolavori d’arte e di bellezza femminile come la Maya Desnuda di Francisco Goya o la Naiade di Antonio Canova o esempi di bellezza maschile come il David di Michelangelo Buonarroti non possono far a meno di rimanere colpiti dal fascino delle forme tonde e guizzanti, abbandonandosi quindi ad un comprensibile pensiero legato al sesso.

Del resto tale pulsione interiore è stata ampiamente discussa da Sir Kenneth Clark che nel 1953 discusse, a Washington, una serie di interessanti lezioni sul coinvolgimento sessuale dello spettatore di fronte al nudo d’arte. La conclusione del ciclo di lectures fu che sebbene nella stragrande maggioranza dei casi il nudo artistico è dettato da condizioni estetiche e filosofiche per così dire caste, lo spettatore non riesce a trattenere un istinto carnale.

Per Vuk Vidor la storia dell’arte contemporanea è una semplice lista

 L’artista franco-serbo Vuk Vidor è senza dubbio una delle figure più eccentriche e fantasiose del panorama dell’arte internazionale. Solitamente Vidor utilizza spesso un linguaggio pop colorato dove ogni dettaglio è parte di un racconto. Seppur caratterizzate da una certa dose di ironia dadaista le sue opere sono serie e profonde. Ultimamente però la nostra fantasia è stata colpita da un’opera di Vidor del 2004 che da poco è stata ristampata in edizione poster e limitata a 200 copie. Si tratta di Art History ed è buffo notare come l’artista riassuma, tramite una semplice lista, le figure chiave dell’arte internazionale.

Marcel Duchamp oggi sarebbe un pirata informatico

Una delle più salienti caratteristiche di questo vivere contemporaneo è la facilità con cui è possibile scambiarsi i più disparati media od entrare in possesso di musica, film ed altre forme d’arte. Nel passato le forme artistiche non digitali hanno creato un certo tipo di scambio economico basato sulla non riproducibilità dell’opera, cosa che si avvia verso la distruzione grazie al file sharing. Ogni giorno milioni di persone scaricano film, libri, foto e musica in maniera totalmente gratuita. La storia dell’arte contemporanea ha avuto esempi di artisti che hanno supportato il libero accesso ai media.

Molti di essi come Guy Debord, Richard Prince o Sherrie Levine si sono appropriati di materiali protetti dal copyright per creare le loro opere. E’ quindi indubbio che molti atti che vengono etichettati oggi come abuso di copyright o pirateria o quanto altro, sono stati in passato fondamentali per lo sviluppo dell’arte. I Ready Made di Marcel Duchamp ad esempio erano oggetti di uso comune che mediante la volontà dell’artista si tramutavano in opere d’arte. Oggi Duchamp avrebbe avuto certamente molti problemi riguardo la creazione delle sue opere poichè avrebbe potuto incappare in un atto di appropriazione indebita di oggetto protetto da copyright.

Il futuro dell’arte è il concettuale? vedremo

Nel 1965 Joseph Kosuth realizzò l’opera Una e tre sedie che comprendeva una vera sedia, una sua riproduzione fotografica ed un pannello su cui era stampata la definizione della parola sedia. Con tale azione l’artista voleva far riflettere lo spettatore  sulla relazione tra immagine e parola, in termini logici e semiotici. Prima di Kosuth, Marcel Duchamp con la sua celebre opera Fontana del 1917 aveva già gettato le basi per il futuro sviluppo dell’arte concettuale.

Chissà però se Duchamp prima e Kosuth poi si saranno mai fermati a pensare all’enorme influenza della loro creatività nel mondo dell’arte strettamente contemporanea. L’escalation dell’arte concettuale infatti sembra divenuta inarrestabile, è oramai cosa consona recarsi ad una mostra in galleria, ad una fiera o ad una biennale d’arte e trovarci dentro un enorme quantitativo di opere costituite da oggetti assemblati a caso e installazioni ermetiche ed alquanto pretestuose. L’escalation del concettuale ha però perso per strada la spinta provocatoria e rivoluzionaria degli inizi oltre che una certa dose di filosofia dettata da una ricchezza culturale ed in certi casi spirituale.

La pittura ha ancora un senso

Le possibilità espressive e creative delle arti visive hanno subito una rapida espansione durante il corso del ventesimo secolo, Marcel Duchamp ha inventato il ready made e successivamente nel corso degli anni sessanta e settanta il proliferare di nuove tecniche come l’installazione, la performance, la land art, la body art, la video arte e la fotografia (non ultima quella digitale) sembravano aver dichiarato a morte la pittura.

Eppure negli scorsi anni la pittura ha incominciato un lento ma inesorabile cammino di ritorno riguadagnando prestigio tra collezionisti ed istituzioni e riconfermandosi regina di aste e compravendite di mercato. Ne aveva avuto il sentore il Centre Pompidou di Parigi nel 2002, presentando la mostra Cher Peintre, Lieber Maler, Dear Painter e profetizzando il ritorno ad una certa forma di pittura figurativa. Successivamente tra il 2004 ed il 2005 Charles Saatchi presentò a Londra una serie di tre mostre intitolate The Triumph of Painting.

La noia dell’arte contemporanea è un fenomeno globale

 Forse stavate pensando anche voi la stessa cosa ma non avevate il coraggio di dirla oppure eravate troppo annoiati per pensarla: il palinsesto delle mostre di arte contemporanea offerto da gallerie e musei d’Italia è decisamente ad un punto morto. Già, è decisamente arduo trovar qualcosa di pur minimamente interessante tra le nuove proposte dell’arte, molti artisti sono ancora inceppati sull’informale altri caricano i loro moschetti con le polveri bagnate dell’arte povera, del concettuale e dell’iperrealismo. I più si perdono in un vagheggio pomposo ed inconcludente quanto svuotato di ogni significato che scimmiotta il mito americano del pop o si pone in bilico tra un Marcel Duchamp senza gabinetto ed un Joseph Beuys senza feltro e grasso.

Con Made in Italy Gagosian sfida il museo

Ci siamo trovati a volte in disaccordo con le passate proposte creative della Gagosian Gallery di Roma ma il nostro obiettivo è appunto quello di essere obiettivi e se avevamo stroncato la mostra di Chris Burden nel marzo del 2010 è anche vero che quella di Yayoi Kusama nel marzo del 2011 ci è decisamente piaciuta, ottimo allestimento e frizzanti e divertenti come sempre le opere di Kusama.

Stavolta torniamo a parlar bene di Gagosian anche se non abbiamo ancora visto la prossima mostra romana, ma gli intenti di questa nuova proposta sono degni di lode. Di certo quando si parla di una piattaforma di mercato non si possono pretendere mostre museali ma stavolta ci troviamo di fronte ad un evento capace di unire l’utile al dilettevole. Stiamo parlando di Made in Italy, mostra collettiva per i 150 anni dall’Unità d’Italia curata da Mario Codognato (in visione dal prossimo 27 maggio fino al 29 luglio 2011). Di eventi commemorativi per il 150esimo anniversario ve ne sono anche troppi ma questo si preannuncia decisamente gustoso. La mostra infatti è strutturata in modo da far ammirare al pubblico l’influenza creativa esercitata dall’Italia nei confronti dei grandi protagonisti internazionali del ‘900.

Una mostra tutta “Made in Italy” da Gagosian

In occasione dei 150 anni dall’Unità d’Italia, Gagosian Gallery il 27 maggio inaugura Made in Italy, un’importante mostra collettiva nel suo spazio romano di Via Francesco Crispi 16. Curata da Mario Codognato, la mostra intende tracciare un inedito percorso italiano attraverso l’opera di alcuni tra i maggiori artisti degli ultimi 60 anni: Georg Baselitz, Jean Michel Basquiat, Joseph Beuys, Marcel Duchamp, Alberto Giacometti, Douglas Gordon, Andreas Gursky, Damien Hirst, Howard Hodgkin, Mike Kelley, Jeff Koons, Louise Lawler, Roy Lichtenstein, Richard Prince, Robert Rauschenberg, Gerhard Richter, Richard Serra, Cindy Sherman, David Smith, Thomas Struth, Cy Twombly, Andy Warhol, Lawrence Weiner.

L’irresistibile attrazione esercitata dal “Bel Paese” nei confronti degli artisti del resto del mondo affonda le radici nel passato profondo e, com’é noto, conosce il momento di splendore a cavallo tra Settecento e Ottocento, all’epoca del cosiddetto Grand Tour, quando artisti-viaggiatori inglesi, americani, francesi e tedeschi varcano le Alpi per sperimentare da vicino la grande tradizione classica conosciuta solo sui libri, i capolavori di un passato idealizzato, ma anche il brivido provocato da uno stile di vita diverso e alternativo rispetto a quello che conoscono in patria.

Ritrovato un filmato sulla guerra di Spagna girato da Henri Cartier Bresson

Henri Cartier Bresson è stato uno dei più grandi fotografi di tutti I tempi, da molti considerato il padre del fotogiornalismo nella sua carriera ha ritratto personalità importanti in tutti i campi come Balthus, Albert Camus, Truman Capote, Coco Chanel e Marcel Duchamp. Inutile aggiungere che le fotografie di Cartier Bresson sono state esposte nei più prestigiosi musei di tutto il mondo e che tuttora istituzioni e gallerie organizzano numerosi eventi a lui dedicati. Negli ultimi giorni però una sensazionale scoperta ha puntato ulteriori riflettori sul nome del celebre fotografo.

Un ricercatore spagnolo ha infatti ritrovato un documentario sulla guerra di Spagna girato da Cartier Bresson in persona.  Come molti di voi sapranno, durante la Seconda Guerra Mondiale, Cartier Bresson fece persino parte della resistenza francese, continuando a svolgere costantemente la sua attività fotografica. L’indomito fotografo ha quindi combattuto, documentando gli orrori della guerra ma oltre a schierarsi dalla parte dei francesi, partecipò anche alla Guerra civile spagnola . Il clamoroso ritrovamento a circa 72 anni di distanza, consta di una bobina da 18 minuti di filmato che Cartier Bresson aveva girato tra i volontari americani della Brigata Abramo Lincoln durante la Guerra Civile spagnola.

Arriva Jennifer Rubell con la sua prova del cuoco per l’artocrazia internazionale

La scena dell’arte contemporanea statunitense ha lanciato un nuovo protagonista ma questa volta sinceramente non è certo una figura di cui si sentiva il bisogno. Si tratta di Jennifer Rubell, autodefinitasi pioniera della conceptual food art. Va detto che bisognerebbe spiegare alla Rubell che gli interventi artistici che prevedono l’uso di materiali edibili sono stati sperimentati già decine e decine di anni fa, quindi queste ricerche non hanno nulla di pionieristico. Alcuni giorni fa Jennifer Rubell ha portato alcune delle sue stravaganti creazioni al Brooklyn Museum di New York in occasione del Brooklyn Ball 2010.

La stravagante cuoca (ci piace definirla così più che artista) ha presentato alcune installazioni edibili ispirate ad opere di grandi protagonisti del ventesimo secolo. Tra le opere riprodotte dalla Rubell figuravano Seedbed di Vito Acconci (1972), Fountain di Marcel Duchamp (1917), Ten Heads Circle/Up and Down di Bruce Nauman (1990) Painter di Paul McCarthy (1995),  One: Number 31 di Jackson Pollock (1950) e How to Explain Pictures to a Dead Hare di Joseph Beuys (1965). Ovviamente ogni opera per essere mangiata deve essere distrutta e secondo la Rubell questa pratica catartica e partecipativa è il punto forte della sua arte.

Alberto Grifi e La Verifica Incerta dell’arte contemporanea

La scena dell’arte contemporanea internazionale è piena di protagonisti, volti noti che appaiono su copertine di magazine patinati o presenziano alle grandi manifestazioni ed alle feste private. Ad opporsi idealmente e culturalmente a questi divi dell’arte, non sempre dotati di grande visionarietà o creatività, vi è un agguerrito manipolo di personaggi i quali non hanno mai amato le luci della ribalta ma hanno influenzato intere generazioni di giovani con le loro opere seminali. Parliamo di artisti che hanno lavorato quasi nell’ombra e che non sono mai stati rappresentati da Gagosian, Saatchi e compagnia cantante, fuggendo persino dal mercato e dalle top delle classifiche di vendita.

Uno di questi nomi è senz’altro Alberto Grifi (Roma, 29 maggio 1938 – Roma, 22 aprile 2007), presenza fondamentale all’interno del panorama del cinema sperimentale italiano e creatore, insieme a Gianfranco Baruchello de La Verifica Incerta (1964). Certo è difficile far comprendere ad un mondo dell’arte elitario e snob, l’importanza sia estetica che filosofica de La Verifica di Grifi, opera dal sapore new dada che suscitò l’entusiasmo di Man Ray, John Cage e Max Ernst, fu Cage stesso infatti che entusiasta della colonna sonora, lo presentò al New York Museum of Modern Art. Il metodo di montaggio de La Verifica,questo “detournement”, fu ereditato da Blob (programma di Enrico Ghezzi in onda su Raitre) molti anni dopo.

Tracey Emin, Yayoi Kusama, Damien Hirst e l’arte degli scacchi

ProjectB di Milano porta per la prima volta in Italia, in occasione della 49ma edizione de I Saloni, il Salone Internazionale del Mobile 2010, The Art of Chess, in collaborazione con RS&A che ha commissionato le scacchiere ad alcuni degli artisti più amati e discussi del panorama contemporaneo internazionale, già esposte nel 2009 al museo di arte contemporanea di Reykjavik. L’interesse delle avanguardie verso gli scacchi fu di centrale importanza per lo sviluppo delle scacchiere d’artista nella prima metà del XX secolo. Da Marcel Duchamp a Man Ray, Max Ernst, Alexander Calder, André Breton e Isamu Noguchi sono stati tutti appassionati giocatori.

La prima volta che una collezione di artisti di questo calibro si sono trovati a celebrare il gioco degli scacchi è stato a New York nel 1944 per la mostra L’immagine degli scacchi presso la Julien Levy Gallery. In mostra a Milano sette scacchiere – a dimensioni reali – dove base, pedine re e regine sono state reinventate da sette artisti: Tracey Emin, Tom Friedman, Damien Hirst, Barbara Kruger, Yayoi Kusama, Alastair Mackie, Rachel Whiteread.

Chris Burden e Gagosian, il re dentro la tenda è completamente nudo

Problema: ci troviamo alla mostra di Chris Burden alla Gagosian Gallery di Roma, (inaugurata il 13 febbraio 2010) con tanto di vips ed iperpresenzialisti della scena dell’arte. Secondo voi è possibile valutare negativamente il lavoro di un monumento della storia dell’arte contemporanea che espone all’interno di un tempio del mercato internazionale?

Soluzione: Si, è possibile e doveroso

Il 19 Novembre del 1971 alle 19:45, Chris Burden ha prodotto una delle opere più sconcertanti della storia dell’arte contemporanea. Si tratta di Shoot, performance in cui l‘artista ha inscenato una fucilazione fondendo l’arte con la realtà e subendo così il lacerante impatto di un proiettile calibro 22 sul suo braccio sinistro. Gli fu chiesto il perchè di tale gesto e Burden rispose semplicemente “Volevo essere preso sul serio circa il mio ruolo di artista“, ed ebbe ragione.  Le performance di Burden hanno sancito un nuovo modello artistico caratterizzato da una crudeltà passiva ed aggressiva in cui l’artista mette in gioco la sua creatività e la sua vita.

La vita di Burden è appesa ad una sottile linea rossa anche in Trans-Fixed, opera del 1974 in cui l’artista si crocifisse sul retro di un maggiolino della Volkswagen con tanto di mani inchiodate. La passività e l’alienazione affiorano nella sua performance Doomed del 1975 al Museum of Contemporary Art di Chicago, in cui l’artista stette immobile sul suolo sotto alcune lastre di vetro per ben 45 ore e 10 minuti. Impossibile riassumere in questa sede l’epica artistica di Burden, filtrata attraverso lenti duchampiane, che nel corso degli anni ha subito una costante evoluzione incrociandosi con land art ed installazioni site-specific.

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