Le previsioni strampalate dell’arte contemporanea

 

Si possono fare previsioni per il futuro andamento del mercato dell’arte contemporanea? Certo, ma tenete bene a mente che quanto predetto difficilmente si avvera. Possiamo comunque divertirci ad ascoltare cosa dicono alcuni  eminenti “luminari” del mercato intervistati da Artinfo.

Per Roman Kraeussl (docente di finanza e redattore della rubrica Databank su Art+Auction) ad esempio ci dice che il mercato dell’arte andrà fortissimo in Cina nei prossimi anni. Peccato che nel 2008 aveva predetto lo stesso per l’India ma tutto questo boom non c’è stato.

Quella brutta abitudine dei consigli per gli acquisti

 

Comprate questo, anzi no, comprate quest’altro. Ultimamente la stampa di settore (e non) sembra esser divenuta un gigantesco contenitore di consigli per gli acquisti. Dal curatore rampante, passando per il gallerista storico ed il collezionista-mecenate sino a giungere al’esperto giornalista, ognuno ha il suo artista da proporre all’ignaro lettore ed ognuno è convinto di puntare su di un cavallo vincente. Gli artisti sono sempre diversi in base alla cordata di appartenenza e quasi sempre giovani.

All’estero si sono visti di rado ma, non si sa per quale bizzarra formula di mercato, sono loro quelli da comprare. Fuori dai nostri confini, dicevamo, nessuno di loro ha mai partecipato ad un’asta ed a cercar i loro nomi all’interno dei roster delle più blasonate gallerie internazionali si perde tempo e null’altro. Non vengono mai nominati dai magazines stranieri, non fanno mostre nei musei oltreconfine e non partecipano a grandi manifestazioni come Documenta o quanto altro.

Un’opera di Alison Schulnik copiata da una stampante in 3D

L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Questo il titolo di un saggio fondamentale di Walter Benjamin, filosofo tedesco che nel non troppo lontano 1936 descrisse l’avvento di nuove tecniche per produrre e conseguentemente riprodurre opere d’arte, aprendo un seminale dibattito sull’autenticità stessa dell’opera. Molti di voi conosceranno questo libro a menadito, altri l’avranno studiato fra i banchi delle accademie. Sta di fatto che un evento accaduto di recente potrebbe aggiungere un ulteriore capitolo a questo già di per sé esauriente testo.

Benjamin parlava di “perdita dell’aura” dell’opera d’arte, l’artista Alfred Steiner ha praticamente dato forma alle idee del grande filosofo. Tutto è cominciato alla mostra collettiva Guilty/ (not) Guilty, organizzata da Sarah Schmerler alla galleria Norte Maar di Brooklyn. Alla collettiva che si è riproposta l’obiettivo di indagare ciò che la società considera come ottime ragioni per fare arte, hanno partecipato Ellen Letcher, Francesco Masci, Alfred Steiner e Pablo Tauler.

Come cambia la Street Art

Impossibile pensare alle mura dei nostri edifici metropolitani senza associarli a qualche meraviglioso intervento di Street Art, anche se va detto che tale corrente creativa non è solamente legata al graffiti o ai murales. Del resto artisti come Banksy ed Invader hanno dato prova della natura cangiante di questa caleidoscopica tecnica espressiva. Alle manifestazioni per così dire di natura segnica, si sono via via affiancate delle vere e proprie installazioni, degli oggetti ready made, delle performance urbane e chi più ne ha più ne metta.

Attualmente la scena della Street Art è la più attiva di tutte sul fronte della sperimentazione e gli artisti che la animano sono sempre pronti ad inventarsi qualcosa di nuovo per stupire l’intera cittadinanza. Andiamo quindi a vedere gli street artists più spregiudicati del momento per osservare da vicino i cambiamenti e le nuove tendenze di questo meraviglioso mezzo espressivo. NohjColey, artista che usa la street art per esplorare vizi e virtù delle persone, la street sculpture in questione dal titolo hoodwinked lifestyle è una sorta di marionetta, piegando le braccia il soggetto passa da una posizione di preghiera ad una tipica da bisognoso di aiuto.

Il mondo dell’arte schiavo dell’Operazionismo creativo

 

Nan Goldin si riscopre fotografa (senza identità) per il re delle scarpe Jimmy Choo. Ai Weiwei non disdegna la collaborazione con W Magazine. Jerry Saltz è un grande critico ma è anche un giudice del reality show dell’arte Work Of Art, una delle peggiori idee della tv contemporanea. Christie’s da par suo assolda Spiderman e lo fa interagire con una scultura di Louise Bourgeois. Le fiere dell’arte si moltiplicano a vista d’occhio con conseguente bagno di folla ma spesso gli opening si affastellano l’uno sull’altro, creando replicanti inutili. I grandi franchisor come Lisson aprono sedi in ogni parte del globo per attirar più clienti nei loro supermarket dell’arte. La Vip Art Fair, fiera dell’arte esclusivamente online, ritocca la sua piattaforma in occasione dell’edizione 2012.

Queste, in sintesi, le notizie provenienti dal mondo dell’arte contemporanea degli ultimi giorni. Si tratta di eventi che in sostanza superano il concetto di spettacolo ed intrattenimento per lanciarsi sui sentieri inesplorati del nulla totale. La crisi del mondo moderno ha provocato una reazione all’interno dell’artesistema ma questa reazione è in realtà un grande effetto collaterale che minaccia la salute di un mondo ormai esangue.

Berlino ha il suo Facebook dell’arte, si chiama Artconnect Berlin

Anche oggi proponiamo al nostro pubblico, come già facciamo da diverso tempo, un articolo che mette a confronto il mondo di internet e l’arte contemporanea. Se ben ricorderete in passato abbiamo scandagliato le nuove realtà di mercato presenti solo sul web, successivamente abbiamo dedicato uno spazio a Google +, vagliandone i particolari benefici per artisti ed operatori di settore.

Ebbene la notizia di oggi arriva fresca fresca dalla Germania e si tratta di una sorta di social network focalizzato esclusivamente sull’arte contemporanea. Questa nuova piattaforma prende il nome di Artconnect Berlin ed è stata pensata per gli artisti che abitano nella grande città tedesca. Artconnect è online dalla fine di luglio con propositi più che battaglieri.

Parliamo di opere, non di nomi

Quando guardate una mostra, ammirate la valenza delle opere o preferite semplicemente ammirare i nomi degli artisti o peggio ancora i loro curriculum? La risposta a questa domanda dovrebbe essere assai semplice, eppure sembra che non tutti siano in linea con l’affermazione: “l’opera prima di tutto”. Negli ultimi tempi infatti, molti attori dell nostro sistemone artistico nazionalpopolare hanno dimostrato di pensare solo al loro progetto curatoriale, sparando nomi blasonati, piuttosto che osservare da vicino la produzione degli artisti.

Esempio lampante di questa pratica assai deprecabile è l’attuale Padiglione Italia (con relative Biennali diffuse in ogni regione) di Vittorio Sgarbi. Per tener fede al suo progetto, il celebre storico ha di fatto affastellato decine e decine di nomi, creando una sorta di fai da te dell’arte, con artisti lasciati alla loro mercé che hanno trasportato le opere a proprie spese e non hanno avuto nemmeno voce in capitolo per quanto riguarda l’allestimento.

Eva Hesse, minimalismo con sentimento

Tra le fredde emozioni offerte dalla grandi stagioni del minimalismo e del post-minimalismo vi è forse un recondito anfratto empio di rovente sentimento, di lirismo ed introspezione che se si oppone all’asetticità ed alla rigidità plastica delle forme. Questo delicato involucro interno è costituito dalle opere di Eva Hesse, grande protagonista del contemporaneo scomparsa a soli 34 anni nel 1970 ma capace di influenzare le nuove leve creative.

Eva Hesse nel corso della sua breve carriera artistica ha contribuito a cambiare per sempre il modo di approcciarsi alla pratica scultorea avvalendosi di materie all’epoca poco utilizzate e sperimentate come la gomma, le resine, il poliestere, il lattice ed altre materie plastiche. L’estrema duttilità degli elementi utilizzati, assieme ad un ferreo e pragmatico controllo degli stessi, permisero all’artista di realizzare installazioni in bilico tra forme organiche e presenze eteree, opere ibride che evocano tensioni tra contrari: caos e ordine, materiale ed immateriale, spazio positivo e negativo.

Sarah Morris: come ti copio l’origami

composizione Hyperallergic

Dopo le vicende di Richard Prince e le sue opere create utilizzando fotografie di Patrick Cariou, torniamo ancora una volta a  parlare di arte e diritto d’autore. Questa volta la mosca al naso è saltata a Robert J Lang che si è visto scopiazzare alcune sue opere in maniera abbastanza plateale da Sarah Morris. Il bello è che Lang è un artista che lavora prevalentemente con la tecnica orientale dell’Origami e Sarah Morris è una pittrice. Ed allora, come si è potuto compiere l’orrendo misfatto?

Partiamo dall’inizio, Lang ha iniziato la sua carriera negli anni ’60 ed a quei tempi l’occidente non aveva molta dimestichezza con l’origami. L’arte del piegare la carta infatti ha cominciato a diffondersi nel resto del mondo a partire dagli anni ’70 ed ’80 quando sono state introdotte nuove tecniche e soprattutto nuove figure al fianco di quelle tradizionali,  l’origine dell’origami (in Giappone) è infatti strettamente legata alla religione scintoista e molti la datano attorno all’epoca Muromachi, vale a dire 1392-1573.

Una giovane arte pesante come una pila di mattoni

Vi dice niente il titolo Equivalent VIII? Ebbene stiamo parlando di un’opera comunemente nota come The Bricks (I mattoni), prodotta dal mitico Carl Andre nel 1966 ed acquisita in seguito dalla Tate Gallery nel 1972 per 2.297 sterline, una bella somma per l’epoca. Quando fu esposta per la prima volta nel 1976, The Bricks non mancò di scatenare le ire di pubblico e critica, furono in molti infatti ad asserire che la Tate aveva dilapidato una preziosa somma proveniente dalle tasche dei contribuenti per acquistare un’inutile ed anonima pila di mattoni.

L’opera di Andre fu comunque un’operazione decisiva che può aiutarci oggi a tracciare la traiettoria della storia dell’arte contemporanea sempre in bilico tra echi duchampiani e minimal. Inutile dire che Equivalent VIII riesca ancora a sollevar polemiche a circa 30 anni dalla sua prima uscita al Tate.

Il MADRE, la Biennale e la sindrome del rifiuto


C’è stato un tempo, politicizzato almeno quanto questo, in cui era d’obbligo la corsa all’istituzione. Tutti gli artisti ambivano ad entrare in Biennale come tutti avrebbero fatto carte false per piazzare un’opera all’interno di un museo qualunque, foss’anco ubicato in una miserrima cittadina di provincia. Oggi le cose non stanno più così e la moda del momento sembra anzi esser quella della retromarcia. Dalle pagine del la Repubblica di Napoli apprendiamo infatti che su 104 opere in esposizione permanente al MADRE, 86 sono state chieste indietro dai loro rispettivi creatori e collezionisti, stiamo parlando di artisti come Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini e Jeff Koons.

Tutto questo accade dopo le dimissioni del cda, vicepresidente Achille Bonito Oliva compreso, per ovvie ragioni di coerenza e dignità di ruolo. La decisione è infatti scaturita dopo l’ipotesi di far entrare galleristi privati nella stanza dei bottoni dell’istituzione, scelta  poco etica ed in pieno conflitto di interessi. C’è inoltre da aggiungere che in questi giorni il MADRE morente è aperto per sole quattro ore al giorno e senza alcuna manutenzione. Sul fronte Biennale va invece sottolineato il sonoro dietrofront di moltissimi giovani artisti che in questi giorni vorrebbero essere chiamati all’interno di un minestrone senza precedenti, cucinato da Vittorio Sgarbi assieme ad Arthemisia Group.

Verge e il caos delle fiere dell’arte emergente

Si parla tanto di fiere dell’arte italiane mal organizzate e si decantano le imprese delle altre manifestazioni all’estero, con la certezza di trovare oltre confine professionisti più preparati, strutture più agibili e stand pieni di opere seminali. Questa volta però da Artinfo ci giunge notizia di una fiera all’estero che ha lasciato vagamente confusi non pochi addetti del settore. Stiamo parlando di Verge Art Brooklyn, manifestazione di mercato tenutasi dal 3 al 6 marzo in quel di New York.

Verge è una fiera dedicata all’arte emergente, anzi l’unica piattaforma di mercato newyorchese dedita ai nuovi talenti. Dette così le cose sembrano alquanto interessanti ma le news ci parlano di un mezzo disastro. La pianta della fiera ad esempio è apparsa caotica e dispersiva con molti stand assenti dalla lista ed eventi collaterali passati in cavalleria: “Ci sono stati parecchi problemi di organizzazione” ha dichiarato in merito Ryan Thomas della galleria Cue Art Foundation.

Giovani artisti e ricerche intercambiabili

Molto tempo fa i protagonisti dell’arte contemporanea erano artisti equipaggiati di una vasta cultura, di visionarietà e gusto. Andando in giro per mostre era facile notare come ogni artista fosse dotato di un suo stile ben definito proveniente da una ricerca unica, non stiamo parlando di riconoscibilità ma di un’estetica e di una valenza filosofica mai fini a se stesse e soprattutto diverse, dissimili fra loro pur se provenienti da eguali correnti.

I protagonisti della Land Art o del Minimalismo ad esempio, perseguivano gli stessi intenti ma le variegate sperimentazioni e tecniche portavano ogni artista su binari ben diversi da quelli percorsi dai suoi illustri colleghi. Oggigiorno trovare simili differenze tra le nuove leve dell’arte diviene sempre più difficile, specialmente quando si parla di installazioni. Le parabole estetiche sono sempre più incrociate e tra found objects e materiali edili è sempre più difficile capire chi ha fatto cosa.

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