Nel sistema dell’arte contemporanea Made In Italy ed in particolar modo all’interno della scena curatoriale c’è qualcosa che non va, qualcosa che la sottoscritta non riesce proprio a digerire ma per meglio analizzare questo profondo stato di malessere bisogna initiare ab ovo. Durante la fine degli anni ’90 e sino al 2005 (circa), la pratica curatoriale nel nostro bel paese ha subito una brusca sterzata, trasformandosi in qualcosa di molto simile alla professione di P.R.
Alcuni curatori hanno mantenuto una visione per così dire critica, perseguendo un tradizionale percorso fatto di saggi, testi, esperienze sia domestiche che oltreconfine, fino al conseguimento degli strumenti necessari per emergere, misurarsi e “fare sistema”. Altri invece, come si diceva, hanno preferito darsi alle pubbliche relazioni ed al management, promuovendo artisti a iosa (con scelte discutibili) e promettendo mari e monti alle gallerie private per poi deluderle sistematicamente al mancato arrivo di collezionisti dotati di moneta sonante. Infine c’è chi ha scelto di ricavarsi una figura professionale starting from scratch, illudendo ed illudendosi sul fatto di poter assurgere al ruolo di consulente onnipotente/onnisciente, quando di fatto il nostro mercato era già ottenebrato da scelte operative del tutto inconcludenti.